14 – Il Monfenera
di Davide Pegoraro e Alessandro Bernardi
Il Monfenera forma con i vicini Tomba e La Castella, una dorsale posta a sud est del massiccio del Grappa. Come un vero e proprio argine, prima di sboccare nella pianura, alla fine del 1917 è stato teatro delle battaglie che hanno prima sbarrato l’avanzata austroungarica e poi visto le truppe francesi assaltarne la cima vittoriosamente. Gli assalti portati furiosamente da ambo le parti ne hanno fatto un luogo di enorme interesse storico e nel contempo una “Tomba” comune sulla quale onorare i caduti di mezza Europa.
Ricordo bene quella notte nelle linee francesi. Il cielo era di un indescrivibile viola intenso e attraverso le nere cime dei pini, vedevo il firmamento con uno splendore di rara bellezza. Mi è venuto naturale, cullato da questi pensieri, sedermi ed accendere la pipa. Sulla piccola scarpata, sotto al sentiero che un tempo divideva la trincea tedesca, dalla massima penetrazione francese, ho cercato un posto morbido e comodo al mio scopo. Poggiata la schiena su di un grosso masso, ho avvertito un pungolo alla mano sinistra, provocato da una lamiera ritorta che usciva di appena un paio di centimetri dal bordo inferiore del macigno.
Con la torcia frontale, estratta al buio con gran fatica dallo zaino, ho illuminato verso il basso. In decenni di ricerche, si affina una formidabile capacità di riconoscere un qualsivoglia oggetto anche solo da un minimo dettaglio, a prescindere da quale fosse la sua funzione e a quale esercito appartenesse; ma questa volta era diverso. Un bordo sottile ripiegato e smussato non mi suggeriva nulla a parte forse una normale lamiera ondulata deformata dall’uso o da un evento lontano.
Ricordo bene quella notte nelle linee francesi. Il cielo era di un indescrivibile viola intenso e attraverso le nere cime dei pini, vedevo il firmamento con uno splendore di rara bellezza. Mi è venuto naturale, cullato da questi pensieri, sedermi ed accendere la pipa. Sulla piccola scarpata, sotto al sentiero che un tempo divideva la trincea tedesca, dalla massima penetrazione francese, ho cercato un posto morbido e comodo al mio scopo. Poggiata la schiena su di un grosso masso, ho avvertito un pungolo alla mano sinistra, provocato da una lamiera ritorta che usciva di appena un paio di centimetri dal bordo inferiore del macigno. Con la torcia frontale, estratta al buio con gran fatica dallo zaino, ho illuminato verso il basso. In decenni di ricerche, si affina una formidabile capacità di riconoscere un qualsivoglia oggetto anche solo da un minimo dettaglio, a prescindere da quale fosse la sua funzione e a quale esercito appartenesse; ma questa volta era diverso. Un bordo sottile ripiegato e smussato non mi suggeriva nulla a parte forse una normale lamiera ondulata deformata dall’uso o da un evento lontano.
Solo allora ho realizzato che molte altre volte avevamo visto, sia io, sia le molte persone che avevo portato fin lì, quel resto metallico impossibile da rimuovere a causa del peso sovrastante e dopo averci per un po’ giocherellato strattonandolo, avevamo sempre desistito dall’idea di riuscire a smuoverlo. Il fornello della mia “Piazzola” cominciava finalmente a diffondere calore alle mani che, seppure la serata non fosse fredda, risentivano dell’immobilità. Trasognavo tra me e me, pensavo alle emozioni che quei luoghi mi trasmettevano e che cosa dovevano aver significato cent ‘anni prima per i combattenti.
Con la punta delle dita, alla cieca, non smettevo di sollecitare, tirandolo e spostandolo a destra e a sinistra, quel pezzo di metallo, fino a che sono riuscito a farlo smuovere quel tanto da poterlo afferrare meglio con la mano. Poi è stato un attimo: con uno scatto repentino, la cosa che non riuscivo ad identificare è uscita dal nascondiglio che per un secolo l’ha celata, prezioso tesoro sotto agli occhi di tutti.
Solo allora ho realizzato che molte altre volte avevamo visto, sia io, sia le molte persone che avevo portato fin lì, quel resto metallico impossibile da rimuovere a causa del peso sovrastante e dopo averci per un po’ giocherellato strattonandolo, avevamo sempre desistito dall’idea di riuscire a smuoverlo. Il fornello della mia “Piazzola” cominciava finalmente a diffondere calore alle mani che, seppure la serata non fosse fredda, risentivano dell’immobilità. Trasognavo tra me e me, pensavo alle emozioni che quei luoghi mi trasmettevano e che cosa dovevano aver significato cent ‘anni prima per i combattenti. Con la punta delle dita, alla cieca, non smettevo di sollecitare, tirandolo e spostandolo a destra e a sinistra, quel pezzo di metallo, fino a che sono riuscito a farlo smuovere quel tanto da poterlo afferrare meglio con la mano. Poi è stato un attimo: con uno scatto repentino, la cosa che non riuscivo ad identificare è uscita dal nascondiglio che per un secolo l’ha celata, prezioso tesoro sotto agli occhi di tutti.